Titolo: It may be an elaborate fantasy (it may be the perfect place to start)
Fandom: Harry Potter
Beta:
eowie,
ruka_nanjou ♥♥♥
Personaggi: James Sirius Potter, Harry Potter, Teddy Lupin; apparizioni di Ginny Weasley, Albus Severus Potter, Lily Potter
Pairing: Harry/James Jr., hints sciocchi Teddy/James Jr.
Rating: Pg15
Conteggio Parole: 5.616 (FDP)
Avvertimenti: Incest colossale Relazioni tra consanguinei slash (padre/figlio) abbastanza esplicite, angst
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• HAPPY BIRTHDAY TO YOUUU, HAPPY BIRTHDAY TO YOUUUU, HAPPY BIRTHDAY,
vedova_nera, HAPPY BIRTHDAY TO YOU!!!! \o/\o/\o/\o/\o/\o/\o/ Per dire, precisamente, BUON COMPLEANNO, VANYYY!!! ♥♥♥
Socia, ti lovvo immensamente. T_T E tutto ciò è proprio tuo tuo tuo tuo tuo in modi inimmaginabili (e non avrebbe potuto essere di nessun altro, a ben vedere XD). Spero ti piaccia, mia amata. *_*
• Tutto ciò, ai tempi che furono, fu plottato proprio con Vany stessa. *_*
• Come potrete notare leggendo il conteggio, ad un certo punto questa maledetta di una fic mi è totalmente sfuggita di mano. *_* A Ruka e Ale avevo detto: “non supererà le 3.500 parole è_é” e ovviamente sono riuscita a tenere fede tantissimo alle mie parole. XDDDD
• James è un po’ fuori di testa, se volete saperlo. ♥
• Titolo ispirato ad un verso di Bright Lights dei Placebo leggermente modificato. ♥
It may be an elaborate fantasy (it may be the perfect place to start)
L’auto prestata dal Ministero scorre nel traffico di Londra in fretta, scansando le auto Babbane che intasano la corsia, ma non abbastanza in fretta per lui. Il viaggio gli sembra eterno, così come la predica in cui suo padre si è lanciato.
«Trovare un’alternativa sarebbe solo una buona idea. Un’idea da persona con la testa sulle spalle,» sta dicendo Harry, e James concentra la propria attenzione sul paesaggio urbano che scorre fuori dal finestrino, cercando di ascoltarlo il meno possibile. «Non dico che il Quidditch non sia un’ottima opportunità, anzi, ma le selezioni sono difficili, le squadre sono piene e non mi pare che tu finora abbia concluso molto.»
Tenta di mordersi la lingua e contare fino a dieci, ma qualsiasi stratagemma si rivela inutile. Si ritrova a sbottare prima di arrivare al sette. «Dannazione, papà, perché non ammetti che non credi che io possa farcela e la smettiamo con questa lagna?»
Harry incrocia il suo sguardo nello specchietto retrovisore e lo fissa con quelli che sono inequivocabilmente rimprovero, biasimo e collera; James non si sottrae, restituendo l’occhiata con altrettanta rabbia. Per qualche istante, sembra che nell’auto non ci sia nessun altro e che qualcosa sia sul punto di scoppiare; prima che possa succedere, però, la voce di Ginny arriva a rimettere a posto la situazione.
«Adesso basta, non voglio sentire una parola di più da entrambi,» intima la donna, minacciosa. «Continuerete questo discorso altrove, siamo quasi arrivati.»
La scintilla del litigio si spegne tanto rapidamente quanto rapidamente si era accesa; Harry torna a guardare davanti a sé, l’attenzione sulla strada, e James si volta verso i suoi fratelli, seduti insieme a lui nel sedile posteriore: Lily è girata verso il finestrino, il mento appoggiato su una mano e quella che è certamente noia negli occhi, mentre Albus, al centro, è incassato nelle spalle e sta chiaramente desiderando di sparire, come tutte le volte in cui lui e suo padre litigano.
Sospirando, James riprende ad osservare il paesaggio, mentre un silenzio teso e innaturale ristagna nella macchina.
*
L’atmosfera cambia di colpo non appena Harry parcheggia e la famiglia scende dall’auto, raggiungendo l’albergo in pieno centro che il Ministero della Magia ha noleggiato - e corazzato contro i Babbani - per la serata della Vigilia di Natale.
Il Ministro della Magia si muove verso di loro non appena mettono piede all’interno della sala e si rivolge al Salvatore del Mondo Magico con una reverenza che a James quasi provoca del disgusto. Non è abituato a scene del genere - suo padre ha sempre cercato di tenere separata la famiglia dalle celebrazioni che gli toccavano, anche se lui non ne ha mai compreso il motivo - e, soprattutto, non riesce a vedere cosa ci sia di tanto sensazionale in Harry Potter.
C’è stato un periodo della sua infanzia in cui ha guardato a lui come se fosse stato avvolto da una luce magnifica ed eroica, ma adesso ce la sta mettendo tutta per dimenticare di aver mai formulato pensieri simili - suo padre, ha scoperto, è solo un uomo mediocre come tanti altri.
Prendono posto ad un tavolo rotondo sistemato al centro della sala e l’atteggiamento della sua famiglia non potrebbe essere più diverso da quello tenuto poco prima durante il viaggio: sua madre sorride raggiante e persino Lily e Albus risultano a loro agio, la prima intenta a scrutare gli Auror disposti a guardia della sala, il secondo impegnato a chiedere ai genitori l’identità di ogni membro della società magica presente tra quelle mura.
James sbuffa un po’ troppo sonoramente, guadagnandosi l’ennesima occhiata storta di Harry. Piantala, sembra dirgli. Lui sostiene lo sguardo con sfida, trattenendosi a stento dal ribattere: piantala tu di fingere di essere qualcun altro.
È con quell’impressione, infatti, che affronta la serata, o almeno gran parte di essa, fino a che Harry non viene invitato a tenere un discorso sul palchetto allestito apposta e le certezze di James si incrinano leggermente.
L’uomo che tiene il discorso non è lo stesso che li ha portati fin là, si ritrova a pensare: sorride, tanto e in modo brillante, tiene le spalle dritte ma con una certa timidezza, come se tutto sommato non riuscisse a superare l’imbarazzo di parlare davanti a decine di persone, le sue parole sono affabili, divertenti, giuste, e gli occhi dei presenti rimangono puntati su di lui come se non ci fosse niente di più bello, tra quelle mura.
James recupera, senza accorgersene, quell’antica ammirazione che provava da bambino, quando si presentava come il figlio di Harry Potter o quando gli estranei gli parlavano di suo padre. Col tempo, aveva iniziato ad accogliere quelle affermazioni monotone con fastidio, a considerarle false e cerimoniose come i commenti celebrativi che si fanno su un morto. Aveva passato gran parte della sua vita a sfuggire alle occasioni ufficiali proprio per non sentirle, ringraziando sia la permanenza ad Hogwarts, sia il desiderio dei genitori di tenere i figli all’oscuro il più possibile di quanto accaduto durante la seconda guerra.
Ma adesso tutto quel tempo sembra essersi dissolto in uno sbuffo di fumo e James si ritrova a fissare lo sguardo su quell’uomo che parla con un nuovo interesse, con qualcosa che, a suo padre, non avrebbe mai pensato di dedicare. Per un attimo, prima che la sala scoppi nell’applauso finale, pensa che gli piacerebbe davvero avere per sé quella versione e nessun’altra - non la reale che non ha fiducia in lui, si lamenta dei suoi comportamenti, trova sempre il modo di inabissare la stima che ha di se stesso e, semplicemente, appare deluso da lui per la maggior parte del tempo, non quella.
Poi il Salvatore del Mondo Magico sorride ancora, rivolto a tutti i presenti e a nessuno in particolare, e scende dal palco per tornare al tavolo dove siede la sua famiglia.
«Papà, sei stato grande!» esclama Albus mentre l’uomo prende posto; James avverte acuto il desiderio di dirgli lo stesso, di confermare l’entusiasmo del fratello, ma poi Harry gli lancia un’occhiata come per controllarlo e l’assoluta mancanza di speranze nel suo sguardo gli fa passare qualsiasi voglia. Rimane in silenzio fino al termine della serata.
*
Si rigira nel letto un paio di volte ancora, prima di decidere finalmente di alzarsi. Il pavimento gelido sotto i suoi piedi nudi gli trasmette un brivido lungo tutto il corpo, ma, preso dai pensieri che si agitano nella sua testa, quasi non ci fa caso.
Lancia un’occhiata attraverso la stanza verso il letto di Albus, per controllare che il fratello stia dormendo. L’accertarsi di ciò lo rende un po’ più calmo, lo fa respirare più a fondo; in silenzio, prende la bacchetta dal comodino e si sposta verso il proprio armadio sulla sinistra, sedendosi a terra per aprire il cassetto alla base del mobile.
Scava tra alcune coperte e diversi vestiti smessi, fino a trovare una scatola di legno che, a causa di tutti gli anni che è rimasta lì dentro inutilizzata, adesso appare un po’ vecchia e rovinata. Con un colpo di bacchetta e un incantesimo sussurrato, il coperchio si sblocca, dischiudendosi. James la apre piano, con un groppo in gola che sembra quasi aspettativa, pur sapendo benissimo ciò che ci troverà all’interno.
Dentro, infatti, ci sono una serie di fotografie e di articoli di giornale con un unico argomento comune: Harry Potter. Ricorda di averli collezionati da bambino, poco dopo l’inizio della scuola, quando aveva cominciato a capire cosa suo padre gli avesse tenuto nascosto per tutto quel tempo. James aveva mantenuto il segreto, senza raccontare niente a Lily o Albus o ai suoi cugini, senza nemmeno farne parola con i genitori; semplicemente, si era messo a raccogliere articoli, a scovare vecchi giornali e vecchie fotografie e a nascondere tutto in quella scatola.
Fino al quinto anno, non aveva smesso una sola notte di guardare ogni suo ritrovato, portandosela dietro persino ad Hogwarts, e di ricercare reperti che testimoniassero l’uomo che suo padre era stato. Aveva persino cercato di rubare una delle targhe in suo onore presenti a scuola, ma il custode lo aveva colto quasi sul fatto e trascinato dal professor Longbottom, così non aveva potuto evitare di inventarsi una scusa e rinunciare al proposito.
Poi, di punto in bianco, aveva smesso. Semplicemente, all’alba dei suoi sedici anni, aveva compreso quanto quell’uomo di cui gli articoli parlavano fosse diverso da quello con cui si trovava a trattare tutti i giorni. Si era sentito deluso e ancor di più furioso, perché ciò che avrebbe voluto era solo conoscere quell’Harry Potter che tutti davano l’impressione di amare ma di cui a James rimanevano solo briciole prive di fascino.
Alla fine del settimo anno, ritrovando quella scatola nel vecchio baule che trasportava a scuola, dopo una lite particolarmente tremenda col padre, aveva preso la decisione di non aprirla mai più: l’aveva sigillata con un incantesimo e riposta nel fondo di quel cassetto. Adesso la tiene in mano per la prima volta da allora.
I suoi occhi scivolano lentamente su ogni singola foto, rileggono i titoli degli articoli e nella sua mente l’immagine di quel ragazzo trionfante, festeggiato e ammirato dall’intero Mondo Magico, appare incredibilmente vicina all’uomo che è salito sul palco qualche ora prima. James sente un sorriso stirargli le labbra, al ricordo, e qualcosa di caldo adagiarsi nel suo petto - qualcosa di cui ha sempre avvertito la presenza ma che non si mostrava più concretamente da anni.
Poi Albus, dall’altro lato della camera, mugugna nel sonno cambiando posizione e basta questo per riportare James alla realtà. La voce della ragione gli ricorda che non c’è nulla da ammirare in Harry, che si tratta sempre di suo padre, e lui si affretta a riporre tutto nella scatola e a richiuderla tramite l’incantesimo.
Dopo averla rimessa al suo posto, torna a letto a passi svelti e, una volta sotto le coperte, finge di non essersi mai alzato, che un’idea simile nemmeno lo abbia sfiorato. Il freddo che si sente addosso, forse, appartiene ad un sogno particolarmente triste.
*
Di suo padre è convinto di conoscere ogni più piccolo difetto. Sa esattamente che forma assumono i suoi capelli al mattino, quand’è appena sveglio, sa che ha l’abitudine di non richiudere mai i cassetti dei mobili, sa che in certi giorni è fin troppo permaloso, che, quando si arrabbia, possono passare ore prima che ne riveli la causa e che, quando poi si decide a farlo, la sua voce è sempre troppo alta e furente.
Sa che adesso lo sta guardando, mentre libera la lettera dalla zampa del gufo, e sa che, se si girasse ad incrociare i suoi occhi, non vi troverebbe né speranza né aspettativa, ma solo una certa dose di rassegnazione. Sa che suo padre, semplicemente, non lo guarda mai con soddisfazione e che qualsiasi tipo di complimento che gli rivolge, al fondo, ha sempre una specie di rimprovero, un borbottio che è impossibile ignorare. Questo, per James, è il peggior difetto che possiede.
La lettera, spedita direttamente dal presidente del Puddlemere United, contiene un rifiuto - l’ennesimo. In tono formale e con eccessivi paroloni che non significano nulla, James viene informato che la squadra è già al completo e non hanno bisogno di riserve, incoraggiandolo però a continuare a migliorare e a ritentare più avanti con tanti auguri di buone feste.
Si ritrova a stringere i pugni attorno alla lettera, resistendo al bisogno di accartocciarla e incendiarla all’istante. Improvvisamente vorrebbe non averla aperta lì in cucina, davanti agli occhi di Harry, a mostrargli il suo ulteriore fallimento, e vorrebbe che il padre fosse comprensivo per una volta, che gli dicesse, con un sorriso, «Non fa niente.»
«James,» comincia l’uomo, invece, esitando un po’. Quando il ragazzo non risponde, continuando a dargli le spalle, aggiunge: «Ti hanno detto di no, vero?»
Con un grosso sforzo, ripiega la lettera attentamente e la rinfila nella busta, appoggiandola sul tavolo. Annuisce e il sospiro di Harry gli causa una morsa allo stomaco.
«Almeno lascia che io o tua madre ti diamo una mano. Lei ha diverse conoscenze sul campo, lo sai, potrebbe…»
«Non dire cazzate,» la replica gli viene fuori perfino troppo velenosa, rispetto alle intenzioni dell’altro, ma James non riesce proprio ad evitarlo. «Non voglio entrare in una squadra solo perché sono il figlio del grande Harry Potter, va bene? Non voglio,» chiarisce rabbiosamente. «Puoi scordartelo.»
«Perfetto,» sbotta il padre con una nota di sarcasmo. «Allora continua pure a sprecare mesi e mesi quanto ti pare e piace, figurati.»
L’esasperazione nella sua voce colpisce James molto più forte di quanto avrebbe fatto uno schiaffo e ha il solo effetto di dar credito a quanto aveva pensato finora. Fissa suo padre immobile e in silenzio, desiderando con tutte le proprie forze che fosse diverso, che fosse come lo ritraggono nei giornali e nelle fotografie, che fosse l’uomo che appare in pubblico, l’uomo che una volta l’anno sale su una scopa per l’incontro di Quidditch di beneficenza organizzato dal Ministero.
Invece è unicamente suo padre, la persona che James, al momento, odia di più al mondo.
Senza aggiungere una sola parola, esce dalla stanza a passo svelto.
*
Gli sembra uno sciocco scherzo del destino, irrompere nell’ufficio di Teddy e trovare sulla scrivania il Profeta in bella vista: dalla prima pagina del giornale, Harry Potter, ritratto sul palchetto dove ha tenuto il discorso qualche sera precedente, sorride e annuisce verso la sala, stringendo la mano del Ministro.
James si immobilizza, fissando la fotografia quasi con orrore, finché Teddy non solleva un sopracciglio e attira la sua attenzione. «Hai visto un fantasma?» domanda, abbozzando un sorriso.
Torna in sé a fatica, scuotendo la testa e replicando, «Peggio.» Poi prende una sedia dalla scrivania vuota lì accanto e gli si siede vicino, appoggiando sul ripiano la borsa del pranzo.
Inizia a raccontargli quanto accaduto alla successiva occhiata che l’altro gli rivolge e, come al solito, l’ora in sua compagnia scivola via in un niente. L’amico riesce persino a rimetterlo di buon umore e James, per un attimo, accarezza la possibilità di chiedergli com’era suo padre prima che lui nascesse - gli sembra che Teddy sia una delle poche persone che gli svelerebbe la verità.
Poi ci ripensa e, raccogliendo gli scarti del pranzo, si appresta a lasciare l’ufficio del Dipartimento Auror. È un piccolo rimorso di coscienza, un piccolo lampo di abitudine che si mostra quando meno se l’aspetta, a farlo tornare indietro fino alla scrivania di Teddy.
Appoggia una mano sulla copia del Profeta e, con uno dei suoi sorrisi a cui l’altro non riesce a rifiutare nulla, domanda: «Posso prenderlo?»
Teddy annuisce, scrollando le spalle, e poco dopo James esce dall’ufficio tenendosi il giornale stretto al petto, quasi fosse un nuovo tesoro appena guadagnato.
*
Lentamente, notte dopo notte, riprende a guardare nella scatola con regolarità. Ha creato un preciso filo conduttore tra i vari ritagli e foto, mettendole in ordine cronologico; l’ultima, presa dal Profeta, è anche quella su cui sofferma di più lo sguardo, per rintracciare le differenze tra l’uomo ritratto e quello che incontra in cucina ogni mattina e a cui ha ormai quasi del tutto smesso di rivolgere la parola.
Dopo, quanto torna a letto, ha la sensazione che le coperte si siano fatte più pesanti, il caldo insopportabile; continua a girarsi e rigirarsi e le immagini di Harry Potter, della linea dritta della sua schiena quando inforca una scopa, del sorriso affabile, luminoso, dello sguardo vivo, acceso di determinazione, non abbandonano mai la sua mente.
Il calore che avverte, a James, sembra provenire dall’interno del suo corpo e non ha idea di come liberarsene.
*
I contatti con suo padre diminuiscono sempre più. Passano gran parte del tempo ad evitarsi e James tende a comportarsi in modo scostante e freddo nei suoi confronti, a non lasciargli nemmeno la possibilità di cambiare le cose - non lo ammette con se stesso, ma la verità è che non vuole che l’uomo sporchi l’immagine quasi perfetta che ha di Harry Potter.
La sera di Capodanno, poco prima di recarsi alla Tana per la festa dai nonni, James sente sua madre dire: «Potresti almeno tentare di mettere le cose a posto? Sono stanca di vedervi così,» mentre passa fuori dalla camera dei genitori. L’istinto gli dice di immobilizzarsi e tendere le orecchie, in attesa della risposta dell’uomo.
Dopo qualche istante arriva uno sbuffo e poi: «Ci proverò, d’accordo?» e sembra così stanca la sua voce, così frustrata, che James non può evitare di sentirsi un peso. In quel momento, la distanza che ha preso dal padre gli fa quasi male, ma si forza ad ignorarla, a dirsi che non importa, non importa davvero.
*
Invece importa. E lo scopre qualche ora più tardi, mentre sono immersi nei festeggiamenti della mezzanotte che si avvicina. James ha permesso allo zio Ron di riempirgli troppe volte il bicchiere e adesso ha la testa leggera, le gambe molli e la risata pronta; si sente addosso lo sguardo di Harry, vigile e attento, e si ritrova a provare una certa anticipazione per quando l’uomo deciderà di andare da lui e parlargli - sa che lo farà, dopo il tono che ha sentito usare da sua madre.
Harry, infatti, si avvicina poco dopo. Inizialmente sorride, tenta di mostrarsi rilassato e allegro, ma qualcosa negli occhi di James - forse un’accusa implicita - torna a farlo tendere come una corda di violino.
«Questa situazione sta diventando ridicola,» comincia, in un modo che James percepisce come non esattamente amichevole. «Non so che fare con te.»
James scrolla le spalle. «Niente,» sbotta, «non fare assolutamente niente.» Ha un sorriso divertito a stirargli le labbra, ma a Harry non sfugge affatto la recriminazione che le sue parole nascondono. Fa per parlare ancora, tuttavia il ragazzo lo interrompe bruscamente. «Lasciami solo perdere, ok?» gli dice, poi lo scarta con un movimento fluido e si allontana.
Al padre sarebbe bastato allungare un braccio per bloccarlo e trattenerlo e l’assenza di quel gesto lo indispettisce ulteriormente; sente il suo sguardo seguirlo, comunque, i suoi occhi puntati sulla schiena, così, come tutte le volte in cui è in fuga da qualcosa, va da Teddy.
Lo trova seduto in un angolo a sorseggiare un bicchiere di spumante, i capelli di un rosso acceso, e gli si affloscia accanto come se avesse appena fatto una corsa. Il contatto fisico, tra loro, è sempre stato una costante, perciò James fa in modo che Teddy gli passi un braccio intorno alle spalle e appoggia la mano alla base della sua schiena. Fa qualche battuta, causa le sue risate osservandolo attentamente, ride a sua volta, piega la testa verso di lui, trattenendosi appena un soffio prima di risultare eccessivo. Sa di essere guardato ancora ed esagera quei comportamenti di proposito, sperando in una reazione, una qualsiasi.
Per un attimo, fantastica su ciò che l’Harry Potter dei giornali e delle fotografie nella sua scatola di legno farebbe; pensa al modo in cui marcerebbe sicuro verso di loro e lo scollerebbe da Teddy con la forza, pensa all’eventuale minaccia che seguirebbe e al fatto che dopo, di certo, lo porterebbe via con sé, allontanandolo dagli altri.
La reazione che ottiene da suo padre, invece, non si avvicina per nulla a questa fantasia; l’uomo gli lancia un’occhiata furente e poi gli dà le spalle, scomparendo tra i presenti e poi fuori dal salotto.
Teddy nota quel movimento in lontananza e, di colpo, si rende conto della vicinanza di James, del suo atteggiamento sopra le righe. «Che stai facendo?» domanda irrigidendosi, ma l’altro ragazzo non risponde. Forza un sorriso nella sua direzione e si mette in piedi, passandogli una mano tra i capelli in un gesto affettuoso. «Niente,» replica. Si allontana subito da lui.
*
Non gli accade quasi mai di incontrare suo padre, quando va a trovare Teddy per pranzare con lui. Sono capitate un paio di occasioni, nei mesi passati, e la loro reazione è stata un semplice saluto e un paio di chiacchiere, niente più.
È quasi del tutto una sorpresa, quando, attraversando le stanze del Ministero per raggiungere l’ufficio dell’amico, lo scorge in lontananza. Harry è in piedi, di fronte a due uomini che non riconosce, le braccia strette al petto e la bacchetta in un pugno.
È arrabbiato, comprende subito James, ma non è il tipo di rabbia che ormai conosce alla perfezione; ha qualcosa a che fare con la preoccupazione, anche, con il lampo di determinazione che gli passa nello sguardo. Sta dando loro degli ordini, sicuramente, e lui vorrebbe spostarsi per osservarlo da vicino, tuttavia rimane fermo, appoggiandosi ad un muro con fare casuale e fissandolo, studiando ogni piega del suo volto, ogni movimento del suo corpo.
I due uomini lo lasciano libero poco dopo e Harry si muove nella sua direzione; James non fa in tempo ad inforcare il corridoio e a sottrarsi alla sua vista - pensa di non volerlo nemmeno, perché gli piace l’idea di potergli parlare adesso e scoprire chi si troverà davanti, se Harry Potter o suo padre.
«Ehi,» lo saluta quindi, mentre l’uomo dà segno di averlo notato e gli si avvicina.
«Cosa ci fai qui?» è la domanda che gli rivolge. Suona incredibilmente pragmatico, come se stesse interrogando uno dei suoi sottoposti, e James ha la tentazione di sorridere.
«Pranzo con Teddy,» replica invece, mantenendo la propria espressione neutrale. Le labbra di Harry si contraggono in una linea sottile per un breve istante, poi si aprono in un sorriso un po’ di circostanza, freddo. «Ho capito.»
«Papà,» comincia James, decidendo di osare, «alleni le reclute oggi pomeriggio? Posso venire ad assistere?» Accarezza già l’idea di vederlo in azione come mai ha fatto, anche se non sul campo, di poterlo osservare lanciare incantesimi, essere almeno un briciolo dell’eroe che è stato. Quell’aspettativa si infrange di fronte al diniego di suo padre.
«Lo sai che non si può,» replica, scuotendo la testa, e deve leggergli chiaramente la delusione sul viso perché aggiunge subito: «Mi spiace.»
James sbuffa. «Figurati,» borbotta, «tanto non ci sarebbe stato nulla da vedere.» Gli dà le spalle e rientra nel corridoio che conduce all’ufficio di Teddy.
*
Una delle foto - una delle più vecchie, un po’ ingiallita e spiegazzata, con il movimento che a tratti salta - mostra Harry Potter lanciare un incantesimo.
Risale al periodo immediatamente successivo alla morte di Voldemort e documenta la cattura di uno dei Mangiamorte rimasti liberi. Nel silenzio assoluto della propria stanza, adesso che Albus è tornato ad Hogwarts dopo le vacanze di Natale, James fissa la foto continuando a tentare di sovrapporre le due figure, senza riuscirci del tutto. Smette sempre prima, man mano che il tempo passa, e rimane invece a fissare le foto come se ritraessero un estraneo, qualche persona dello spettacolo famosa e conosciuta da tutti ma definitivamente distante.
A letto, liberarsi dell’immagine di quel ragazzo, del suo braccio teso, dell’espressione concentrata sul suo viso è di volta in volta più difficile e il calore che ciò comporta insostenibile. James riconosce quelle sensazioni come desiderio - un desiderio che non dovrebbe provare affatto - e cerca di impegnarsi davvero per scacciarle.
Non ci riesce, per quella notte e tutte le notti seguenti.
*
L’assenza di sua madre - impegnata a seguire le Holiday Harpies nel loro ritiro in Scozia per uno speciale sportivo del Profeta - lo rende incauto. James lascia la scatola di legno appoggiata sul comodino, dove può facilmente raggiungerla, cosciente che nessuno metterà piede in camera sua per tutta la settimana successiva.
Quanto si è sbagliato lo capisce solo quando rientra in casa e la voce di suo padre arriva esattamente dalla sua stanza.
«Vieni qui,» lo sente dire, in un modo che assomiglia troppo ad un ordine perché possa essere ignorato. Le gambe di James iniziano istintivamente a tremare, come se già sapesse cosa sta per succedere. A passi pesanti, ma ugualmente incapace di sottrarsi, si avvia verso di lui.
Harry è in piedi vicino al suo letto e tra le mani dell’uomo James scorge con orrore una serie di pagine di giornale e fotografie - le sue pagine e fotografie. I timori peggiori che gli si affacciano subito alla mente vengono solamente confermati dal contenitore completamente aperto sul letto.
«Cosa sono queste?» domanda suo padre. Lo fissa dritto negli occhi ed è sconcerto quello che James ci vede dentro. Boccheggia, tenta di pensare disperatamente ad una risposta, una qualsiasi che lo tiri fuori da quel guaio in maniera abbastanza dignitosa. Non ne trova nessuna.
«Io…» comincia, prendendo tempo. Poi si rende conto all’improvviso che, forse, dalla situazione in cui si trova può ricavare qualcosa. Si rende conto che, forse, la situazione in cui si trova è l’occasione che stava aspettando.
«Sei tu, no?» sbotta allora, avvicinandosi e togliendogli di mano i ritagli. «O almeno, ciò che mi piacerebbe tu fossi.» Ripone tutto nella scatola, riordinando alla bell’è meglio, e l’allontana da suo padre in uno sciocco tentativo di proteggerla.
Harry scuote la testa e aggrotta le sopracciglia. «Non capisco. Se avessi voluto sapere qualcosa, avresti soltanto dovuto chiedere. Te l’avrei detto,» continua.
È il turno di James di scuotere la testa. «Non capisci, ovvio che non capisci.» Accenna una risata ironica e riprende, «Io non volevo sapere qualcosa, volevo solo che tu, almeno ogni tanto, fossi lui.» Indica la scatola con un gesto della mano e lo sguardo confuso del padre lo irrita, perché adesso non è davvero possibile che non capisca.
«Ascolta,» comincia l’uomo, prendendo un profondo respiro. «È chiaro che tra di noi ci sono dei problemi e che stai cercando di infastidirmi, o di attirare la mia attenzione, o non lo so nemmeno io. Ma possiamo…»
«Smettila,» lo interrompe James. Lascia che la rabbia evapori per qualche istante, sotto lo sguardo attento di Harry, e si forza a respirare con calma. «Non stavo cercando di fare nulla del genere,» spiega, «volevo solo che tu sorridessi come fai quando sei il dannato Salvatore del Mondo Magico. Volevo che mi guardassi come guardi i tuoi Auror, perché almeno a loro dai fiducia. Vorrei che fossi l’eroe che tutti ti credono essere.»
La sua voce si incrina leggermente nell’ultima frase e James si maledice, perché adesso è proprio il momento in cui meno vuole mostrarsi debole, non sotto lo sguardo fisso dell’uomo. «Vorrei che tu fossi diverso, maledizione,» conclude, passandosi poi una mano tra i capelli per allentare la tensione che si sente addosso.
Harry gli si avvicina, gli appoggia le mani sulle braccia e stringe, impedendogli di muoversi. «James,» comincia. «James, basta. È sempre di me che si tratta, se all’esterno sono diverso è perché devo. È perché la gente se lo aspetta.»
Il ragazzo si divincola, ma Harry non lo lascia andare. «Quello che mi aspetto io, invece, non conta?» Dà un altro strattone poi, come se le forze gli venissero improvvisamente meno, si immobilizza. «Se tu fossi in quel modo anche con me, sarebbe… sarebbe…» solleva lo sguardo su di lui e la voce gli si spezza. Facile, si dice, bello. Le immagini gli si sovrappongono davanti agli occhi e, per un breve momento, mentre chiude gli occhi e prende un respiro, gli sembra che l’Harry Potter delle fotografie sia davanti a lui. Gli torna tutto in mente, ogni singola notte e ora e attimo speso a studiare il contenuto della sua scatola, a rigirarsi nel letto con un solo pensiero in testa, il calore, il desiderio, il peso al petto che ognuna di queste cose comporta. Saresti la persona che voglio, è la naturale conclusione che si affaccia alla sua mente, ed è anche la peggiore a cui potesse giungere.
Senza terminare la frase, scivola in avanti, appoggiando la fronte sulla spalla dell’uomo che non sa più come identificare perché non riesce a trovare la forza di riaprire gli occhi e controllare.
Harry lo stringe in un abbraccio, cercando di calmarlo, tenendogli una mano sulla nuca e un braccio attorno alle spalle. Parte della sua razionalità dice a James di doversene allontanare, di dover ristabilire i suoi equilibri, prima, di essere cauto, di essere attento; il contatto, tuttavia, è troppo confortante perché possa abbandonarlo. È un sollievo minimo rispetto a ciò che vorrebbe davvero, ma è pur sempre qualcosa, e James gli circonda la vita con le braccia affondando il viso nell'incavo tra il collo e la sua spalla cercando di respirare aria, ma inalando solo l’odore del suo corpo, che è qualcosa di improvvisamente sconosciuto, improvvisamente diverso.
Non va bene, si dice, non va bene, ma con gli occhi chiusi e il mondo reale spinto forzatamente fuori dalla sua testa fingere è così facile che non riesce ad impedirselo e il bisogno di trovare sollievo, il bisogno di un appoggio, copre qualsiasi altro barlume di lucidità.
In fondo, in fondo alla sua mente, al suo cuore e a qualsiasi altra cosa che guida le sue azioni, James sente una voce allertarlo, continuare a pregarlo di fare un passo indietro e allontanarsi - salvarsi -, ma le notti sono state lunghe ed estenuanti, il desiderio è stato troppo, viscerale e nocivo, e la sua mano risale lungo la spalla di Harry fino a posarglisi sulla guancia senza che se ne renda pienamente conto. Gli arriva l’eco del movimento, piuttosto, come se anche quello facesse parte di una fantasia, ed è solo quando le sue labbra si appoggiano su quelle dell’uomo che realizza che tutto sta accadendo davvero.
Harry lo lascia di colpo andare e James rimbalza finalmente indietro, mettendo tanto più spazio tra loro quanto le sue gambe tremanti gli consentono. Si passa le mani sul volto, girandosi poi di spalle per evitare in ogni modo di guardare l’uomo - suo padre - che invece resta immobile, sconcertato. Tiene gli occhi fissi sul pavimento, alla ricerca di un punto stabile che permetta alla realtà di smettere di girare e al senso di nausea di passare inosservato; desidera scomparire, correre lontano, ma è certo che i muscoli non lo reggerebbero al momento, così si limita a rimanere fermo, mezzo aggrappato alla parete.
La voce di Harry gli arriva dopo quella che sembra un’eternità di silenzio ed è debole, venata di qualcosa che riconosce come terrore. «James,» lo chiama, ma il ragazzo non ha la forza di sollevare lo sguardo, non ha il coraggio di rivolgergli attenzione.
«Devo andarmene,» dice invece in un sussurro appena udibile, rivolgendosi più a se stesso che al padre. Riesce a voltargli le spalle e finalmente a muoversi, uscendo dalla stanza e poi dall’abitazione.
L’uomo non fa nulla per fermarlo.
*
I giorni seguenti, James li trascorre facendosi ospitare da diversi amici - di quelli che non lo conoscono abbastanza bene per fargli le giuste domande -, spendendo la maggior parte del tempo fuori casa, evitando in ogni modo possibile di rimanere nella sua stanza e in presenza di suo padre.
Quando sua madre ritorna, la glacialità che è scesa tra loro non le passa di certo inosservata, ma nonostante le sue richieste di spiegazioni, i suoi tentativi di comprensione, non riesce ad ottenere nulla. Dopo qualche giorno, Ginny smette semplicemente di domandare, esausta a sua volta.
La situazione sembra incapace di sbloccarsi, di procedere in una direzione qualsiasi. Poi, inaspettata, la lettera che tanto James aveva atteso arriva.
La squadra irlandese dei Kenmare Kestrels gli comunica, con il solito gufo, che si è liberato un posto di riserva e che sono disposti a fargli un provino: questo basta per permettergli di ritrovare una nuova determinazione, una via di fuga dalla gabbia in cui si sentiva prigioniero.
James raggiunge la loro sede in Irlanda il giorno indicato senza dire nulla ai suoi genitori, lasciandosi coprire da Teddy, e solo quando il capitano gli comunica che non poteva andare meglio e che può considerarsi ufficialmente un Cacciatore di riserva della formazione si decide ad informarli.
Harry e Ginny sono seduti in cucina per la cena, quando James entra a passo sicuro e annuncia: «Sono stato preso dai Kenmare Kestrels. Mi trasferisco in Irlanda entro la fine di questa settimana.»
Sua madre salta in piedi e gli allaccia le braccia al collo, ridendo allegra e congratulandosi, ma è a suo padre che James osserva tutto il tempo: non può evitare di registrare come sollievo l’espressione che compare sul suo viso.
«Congratulazioni,» gli dice, incrociando il suo sguardo forse per la prima volta da settimane. James forza un sorriso, ricambia l’abbraccio di sua madre e non si sorprende di scoprire che l’assenza di orgoglio e soddisfazione negli occhi del padre non significa più nulla per lui.
*
Il giorno prima della partenza trova il coraggio di dormire a casa, nella sua stanza, ma non quello di prendere davvero sonno. A metà della notte si alza, con la consapevolezza che ci sia ancora qualcosa che deve fare, prima di andarsene.
Si dirige perciò verso l’armadio, apre il cassetto nel fondo del quale aveva riposto rabbiosamente la scatola di legno in uno dei momenti di passaggio a casa e la porta di sotto, davanti al camino del salotto. Il fuoco, acceso tramite la magia, divampa in un attimo e illumina flebilmente la stanza.
Lentamente, fotografia dopo fotografia e ritaglio dopo ritaglio, James lancia tutto tra le fiamme, rimanendo per interi minuti a guardare i fogli accartocciarsi su se stessi, diventare neri e poi cenere, scomparire dalla sua vita.
Alla fine, dopo quelle che possono tranquillamente essere state ore, tocca alla scatola di legno stessa. Il crepitio delle fiamme quasi nasconde i passi dietro di lui, ma non abbastanza da farlo sobbalzare quando Harry lo chiama.
Non si volta, gira appena il viso per dargli segno di aver sentito, ma poi torna a guardare il fuoco.
«Mi dispiace per come sono andate le cose,» afferma suo padre, il tono un po’ incerto, e James incassa il colpo abbracciandosi le ginocchia ancora più strette.
«Anche a me,» lascia finalmente uscire dopo qualche istante. Vorrebbe aggiungere qualcosa, qualcosa in grado di rimettere la situazione a posto, di riequilibrarla, ma non trova nulla che ne sia in grado - probabilmente perché non c’è.
Harry sospira, senza osare avvicinarsi, e poi riprende. «Spero che vada bene in Irlanda. Verrò ad assistere alle partite.»
James annuisce e, lanciandogli un’occhiata da sopra una spalla, replica: «Ci vediamo lì, allora.»
«Sì,» dice suo padre e poi, silenzioso come era arrivato, lascia il salotto. La mancanza dell’uomo lo coglie già adesso, mentre si trovano ancora tra le stesse mura; James se la tiene stretta, comincia ad imparare a conoscerla perché sa che è qualcosa che gli farà compagnia a lungo.
Il giorno dopo, quando si salutano nel cortile della casa, prima che James monti sulla propria scopa e parta, riescono persino ad abbracciarsi brevemente.