Titolo: Sentimental heart (and body)
Personaggi: Regulus Black, Remus Lupin (Regulus/Remus implicito)
Prompt: Regulus Black/Remus Lupin, "Ancora non capisco perchè hai scelto me." "Ma io non ho scelto te." (dal P0rnfest #5)
Genere: Angst, Introspettivo
Rating: R
Avvertimenti: angst, lemon, slash.
Note: non scrivevo da un mese. E niente, meno male che c'è Regulus. Grazie a
S0emme0S che ha inserito il prompt ♥ e grazie anche a
mars25oct che mi ha fatto un bellissimo
fanmix e mi ha fatto scorpire
Sentimental heart, la colonna sonora di questa storiella ♥
I granelli di polvere danzavano nell’aria pesante della sua stanza con una strana grazia; la luce aranciata del sole - forse il crepuscolo o forse l’alba - illuminava quelle piccole particelle, irradiandole di una luminescenza quasi magica.
Gli occhi di Regulus fissavano quei puntini brillanti con apatica curiosità, seguendone uno, poi passando a quello successivo, senza mai distogliere lo sguardo dallo stesso punto fisso.
L’atmosfera era sospesa in un universo di silenzio e polvere; i rumori della casa erano tenuti lontani, relegati oltre la soglia chiusa della stanza. Ore intere che Regulus non sentiva la voce di sua madre, le apparizioni improvvise degli elfi domestici, ore passate a fissare quel punto e a muovere le dita con gesti impercettibili, sfiorando i polpastrelli gli uni con altri, nel vano tentativo di ricreare quella stessa sensazione.
Gli piaceva passare le dita sulla sua pelle imperfetta di cicatrici: era come se il suo pallore fosse una sensazione tattile, come se i suoi polpastrelli potessero toccare il bianco e farlo proprio.
Remus lo lasciava sempre fare, a patto che lui in cambio gli permettesse di toccare i suoi capelli. Le mani gli afferravano la nuca, dapprima con amabile esitazione, poi con una stretta ferrea, stringendo le ciocche fra le dita, facendole scorrere e poi riprendendole, tirandole, annodandole.
Aveva paura di chiedere perché fosse così ossessionato dai suoi capelli e quindi affogava i dubbi premendo i palmi aperti sulla sua schiena, stringendolo a sé come se fosse possibile renderlo proprio.
E intanto le mani di Remus gli toccavano i capelli.
Aveva provato, qualche ora prima - forse qualche minuto solamente -, a toccarsi i capelli come faceva lui, ma non era la stessa cosa.
Le sue dita, poi, cercavano disperatamente quel pallore, quel calore, le cicatrici di Remus.
Stringeva le labbra, pensando a quanto la mancanza sembrasse concreta, la stessa agonia di un corpo che non respira o che non beve: labbra screpolate cercavano salvezza nell’umida carezza della propria lingua, braccia secche abbracciavano il corpo, tentando disperatamente di riproporre gesti ormai relegati nel regno triste dei ricordi.
Quando lo stringeva a sé - una mano sempre ben piantata fra i suoi capelli - Regulus sentiva un brivido corrergli lungo tutto il corpo, facendolo tremare. O forse era Remus ad avere i brividi, ma erano così vicini, così tanto uniti da sembrare un unico vibrante organismo.
E poi c’erano le labbra che gli baciavano il collo, i denti che tiravano piano la pelle, come se una bestia affamata stesse giocando con la vittima, pronto a divorarla.
E poi c’erano le dita che lo spogliavano ed erano sempre frenetiche, come se l’agitazione della prima volta non l’avesse mai abbandonato - dal canto suo, Regulus era nervoso come allora, con la sensazione che tutto potesse finire da un momento all’altro, quando la realtà della situazione sarebbe stata un macigno troppo concreto che pesava sulle loro teste.
Non erano mai nudi completamente, non erano mai lenti, per paura d’essere scoperti, o forse solo per il timore di rendersi conto di ciò che stavano facendo; era così che Regulus viveva quegli incontri, tra l’eccitazione e l’euforia che si provano a toccare qualcosa che non si deve, e l’angoscia di vederselo sfuggire via da un momento all’altro.
Poi la paura era sparita, pensò all’improvviso, bloccando i ricordi confusi di tanti momenti d’incontri diversi, fusi insieme nel tentativo di creare un’immagine unica di quell’esperienza.
Le mani, però, continuavano a sfiorare la pelle e gli occhi stavano cedendo: i granelli iridescenti di polvere erano sempre più confusi e sbiaditi, mentre le palpebre si abbassavano e le ciglia scure intrappolavano le ultime immagini della stanza.
Era diverso, troppo, per essere la stessa cosa, la stessa sensazione d’allora; come era stata diversa l’ultima volta, nonostante allora non fosse sembrata l’ultima.
Remus l’aveva baciato a bocca aperta, respirando dalle sue labbra, mentre si piegava su di lui.
La schiena di Regulus era premuta contro il legno nodoso e rovinato di un vecchio banco e quasi sentiva il muro dello sgabuzzino sfiorargli la testa, sempre più vicino ad ogni spinta.
Le sue gambe contratte, legate attorno al corpo di Remus, iniziavano a dolergli, eppure non avrebbe mai voluto smettere e sciogliere quell’abbraccio sconclusionato.
I corpi erano vicini, così tanto che Regulus non sarebbe riuscito a distinguere una camicia dall’altra, a capire di chi era il mantello che li copriva, rendendo la cappa d’aria attorno a loro ancora più umida, pesante, un bozzolo dove c’era posto solo per due amanti irrequieti - amante, gli ricordava Remus, vuol dire “colui che ama”.
Muoveva i fianchi in alto, cercando di sfregare l’eccitazione contro il corpo dell’altro, la frizione che non era mai abbastanza, ma che ogni volta gli faceva correre lungo la schiena brividi sempre più intensi di piacere lungo la schiena, e che poi si andavo ad annodare lì da dov’erano partiti.
Remus si era tirato indietro - di così poco che i loro nasi si sfioravano, accarezzandosi -, guardandolo tra le ciglia intrecciate; una mano gli teneva una coscia, stringendo la carne tesa, quasi graffiando la pelle, mentre l’altra gli sfiorava i capelli, il gomito piegato a reggere il peso. Spingeva contro di lui, dentro di lui con veemenza; i movimenti sconclusionati causavano un rumore strano che riempiva le orecchie di Regulus, insieme ai loro gemiti e ansimi, rendendolo pazzo e affamato di quel piacere che si faceva ogni volta più vicino.
Quella volta Remus aveva chiuso gli occhi, uscendo dal suo corpo e sporcandogli la pancia di sperma. Aveva poggiato la fronte contro la sua, perso per un attimo nel confuso oblio dell’orgasmo, e poi aveva iniziato a masturbarlo.
Regulus aveva continuato a stringere le gambe attorno a lui, osservandolo da vicino - quella posizione privilegiata, che lo faceva sentire innamorato, bramoso, triste e speciale - e poi era venuto, mettendo le mani sulle sue spalle, sollevando la testa per baciarlo.
Era tutto perfetto, la cappa che li avvolgeva odorava di sesso e sudore e lui era sul punto di addormentarsi, incurante del legno nodoso che premeva contro la sua schiena, delle gambe doloranti e del fatto che Remus si fosse già allontanato, già pronto a rivestirsi e andar via, arrivederci e al prossimo incontro d’amore.
“Sai…” aveva detto, incauto come un cucciolo che ha ricevuto una carezza, “Ancora non capisco perché hai scelto me.”
Non voleva ricordare quel momento, lo sguardo di Remus, perso e colpevole, che bastava a fargli capire che no, non l’aveva scelto.
Voleva solo ricordare il calore della sua mano, l’imperfezione della sua pelle, l’intensità dei suoi baci e quel vizio di toccargli i capelli - e lui l’aveva visto, oh, così tante e tante volte, giocare con i capelli di suo fratello.
Voleva ricordare la sensazione del suo pallore: le dita si mossero ancora una volta, impercettibilmente.
Poi le mani si distesero sul lenzuolo e Regulus tornò a fissare i granelli di polvere.