Cronache del Falco e del Drago

Feb 02, 2010 15:32

 Ovvero, la dimostrazione che gli MMORPG non servono solo ad uccidere mostri e/o altri giocatori. XD
Sono iscritta ad un server GDR di World of Warcraft (un videogioco fantasy online). Essendo incentrato sul gioco di ruolo e non sul PvP (player VS player) o PvE (Player versus Event, cioé i mostri), richiede una scheda personaggio che ne dettagli storia e origini; ho deciso di scriverla in forma di racconto, in prima persona, per avvicinarmi un po' al modo di pensare del mio bimbo (Yunel, un Elfo del Sangue... Razza del gioco. Accomunateli ai normali elfi, aggiungeteci un po' di sana dipendenza dalla magia arcana e ci siete). Il risultato, alla fine, è un racconto in sé: uno per cui mi sono sforzata abbastanza, essendo l'ambientazione complicata, quindi mi piacerebbe condividerlo.
E' di buona comprensione anche senza conoscere il gioco, fate pure domande se non capite qualche passaggio...

Chiunque legga queste righe, racconto della mia vita, si starà aspettando una tragedia: difficile trovare passati privi della morte e del dolore che hanno segnato l'epoca attuale. Non posso certo dire che la mia storia sia differente- il Flagello ha distrutto anche coloro che avevano vissuto felicemente in precedenza- e non so nemmeno il perché di questo racconto; ma, dopo tanto tempo passato a viaggiare, sento il bisogno di ricordare ciò che è stato, per prepararmi a ciò che sarà.
Immagino sia giusto cominciare dai miei genitori, che tanto hanno influenzato la mia vita. Mia madre si chiama Anya. E' una bella persona, nel fisico e nella mente; non ha quell'orgoglio e quella fierezza che tutti associano alla nostra razza- è umile, eppure possiede una certa forza: se non fosse così, di certo non avrebbe potuto fare il suo mestiere. Infatti, è (o meglio, era) un'allevatrice: si era dedicata ai Dragonhawk, creature che ammira e per cui mi ha trasmesso il proprio amore. Da ciò che mi raccontava, era stato proprio a causa del lavoro che incontrò mio padre.
Lui- Hathe Embershade, qualche elfo probabilmente ne ha sentito il nome- era un ranger, membro dei Farstrider; tra i migliori di loro, addirittura. La nostra famiglia non è nelle grandi casate, né ha diritto agli onori riservati ad esse, eppure lui si guadagnò un posto tra gli ufficiali, in virtù della sua bravura: oltre ad essere un rispettabile stratega, raramente ho visto qualcuno superarlo nell'arco. Per me era un modello da seguire, un mito: amava mia madre, e la proteggevo per lui mentre era lontano da Fairbreeze, quasi soffrendo nell'orgoglio quando notavo che era lei a curarsi di me. Quando invece tornava, non gli davo pace- mi feci insegnare fin da giovane a tirare con l'arco, e lui mi portava con sé nel supervisionare le reclute. Dimostravo buone capacità, mi disse più di una volta, ed io ero più che felice di imparare: volevo seguire le sue orme, unirmi al gruppo di cui tutti sembravano esaltare il valore.
Ero ancora un ragazzino- avrò avuto settant'anni- quando decisi di seguire il mio desiderio: mi allenavo da anni, per questo mi sentii pronto a farmi arruolare tra i nuovi cadetti. Mia madre, inizialmente, oppose resistenza. Ero troppo giovane, diceva, lamentandosi semiseria che mio padre aveva convinto anche me ad abbandonarla, ed era presto perché mi lasciassi coinvolgere dalle battaglie per la patria. Pensandoci ora, temo di doverle dare ragione; ma nella mia immaturità non vedevo il vero pericolo di una guerra. C'erano solo la gloria e l'onore che avrei portato alla famiglia.
Hathe stesso non riuscì a darmi pieno supporto: era sempre stato il suo modo di fare, fingere indifferenza per spronarmi a migliorare. Tutt'ora non so se mi guardasse più come un figlio, o come una potenziale recluta. Ricordo che quando gli comunicai le mie intenzioni rise; disse in risposta alla mia indignazione che avrei potuto usare il suo vecchio arco (al confronto, ciò che utilizzavo per esercitarmi era un semplice giocattolo) per affrontare le prove e che, se davvero mi pensavo al pari dei cadetti che tanto spesso avevo visto allenarsi, allora era un mio diritto tentare. Gli chiesi se pensava potessi farcela- “questo non sta a me”, rispose con aria sardonica.
Ora... Se questa fosse una storia inventata, gli avvenimenti seguenti sarebbero piuttosto prevedibili. Prove complicate, la mancanza di rispetto da parte degli altri candidati, eppure il protagonista riesce a farsi accettare. E' sempre andata così, nei racconti, ed è ciò che chiunque si aspetta; eppure, si tratta di una vita vera.
Le difficili prove c'erano. In quel periodo, infatti, si era soliti esaminare le reclute nelle loro abilità essenziali: la bravura con l'arco e con le armi da mischia, la furtività, le capacità di sopravvivenza- ero ben preparato soprattutto per le prime, decente nel resto. Me la cavai, tutto sommato, ammutolendo qualche malalingua sicura che mi sarei fatto divorare dal primo animale selvatico che avessi incontrato.
Come sarebbe realistico aspettarsi, ovviamente, non bastò.
Più avanti negli anni venni a sapere che mio padre aveva fatto qualche pressione per lasciarmi sostenere l'esame; ma con l'età che avevo, nessuno si sarebbe sognato di arruolarmi, se non avessi dimostrato capacità a dir poco eccezionali. Chi aveva giudicato le prove mi disse che, se fossi stato adulto, mi avrebbe sicuramente accettato.
Dire che presi male la notizia è un eufemismo. Rimasi profondamente deluso: non capivo il motivo della scelta degli ufficiali, al tempo. Se ero bravo come uno di loro, che differenza faceva l'età? Con questi pensieri in testa, le giornate passavano lentamente- fortunatamente, mia madre mi conosceva abbastanza da sapere che tenermi occupato era il modo migliore per evitare certi miei ragionamenti. Per alcuni anni, mi dedicai con lei all'allevamento; cominciai inoltre ad aiutarla in uno dei suoi passatempi, la creazione di gioielli. Spesso uscivo e cercavo per lei minerali e gemme, o la guardavo lavorare. Non avevo tuttavia intenzione di deludere mio padre, né le mie stesse aspettative: continuavo ad allenarmi con l'arco, migliorando la mia mira, ma il mio orgoglio bruciava ogni volta che mi avvicinavo alla caserma dei Farstrider. Per questo, me ne tenni lontano.
Passò così molto tempo. La mia maturità si avvicinava: sapevo di essere ancora giovane, ma crescere aveva spento lentamente il rancore che provavo per l'organizzazione, e quasi mi sentivo pronto a ripetere le prove. Decisi però, assieme ai miei genitori, che avrei passato un certo tempo lontano da casa, in viaggio: la mia abilità con l'arco valeva poco, se non l'avessi supportata conoscendo meglio il mondo. Presi con me Flariel, uno degli esemplari più giovani che io e mia madre avevamo allevato, e partii.
L'intenzione era di restare lontano per qualche anno, una decade al massimo; ma dovetti affrettare il mio ritorno, a causa dello scoppio della Seconda Guerra. Venni avvisato per lettera della partenza di mio padre tra le scarse truppe inviate agli umani: una scelta ragionevole, in termini militari, poiché era abbastanza capace da poter guidare i nostri uomini, ma sostituibile in caso di morte. In ogni caso, conoscevo il carattere di Anya e potevo immaginare la sua preoccupazione per entrambi noi; per questo, io che potevo tornai al suo fianco.
Hathe Embershade fu una delle vittime della guerra; ricevemmo la notizia da un messaggero dall'aria impassibile. Ogni mia ambizione di finire i miei viaggi e tornare più preparato per l'arruolamento dovette esser messa da parte: non potevo pensare di lasciarla sola, non dopo ciò che era successo. Mi rassegnai- fare l'allevatore, in fondo, non sarebbe stato terribile. Eppure, appena quindici anni dopo il secondo grande conflitto ne arrivò un terzo; il più terribile per la nostra razza.
Quando il Flagello raggiunse la capitale, sfuggimmo per miracolo all'attacco. Ci trovavamo nel Bazar, io impegnato a vendere i gioielli creati da mia madre e lei nel rifornirci di cibo; ancora non so bene come ci siamo salvati. Il puro caos e gli orrori che vidi mi impediscono di ricordare con precisione: so che ci ritrovammo, stremati e feriti, nella foresta vicino Fairbreeze. Casa nostra, leggermente isolata dalle altre, era andata distrutta; in più, trovammo morti tutti i Dragonhawk. Il solo a salvarsi era stato Flariel, che avevo portato con me in città e mi aveva seguito nella fuga.
Non sapevamo cosa fare, né come proseguire: ciò che ci era rimasto ci era stato tolto. Dopo la distruzione del Sunwell, indebolita ed abbattuta dall'ennesima perdita, mia madre lasciò ogni desiderio di ricominciare daccapo la vita che avevamo impiegato tanto tempo a costruire.
In quel frangente, sentimmo parlare della Nuova Orda e della popolazione dei Tauren, le cui abitudini pacifiche piacquero ad Anya, stanca del conflitto; contemporaneamente, i propositi di vendetta dei nostri compatrioti e l'alleanza con Illidan le suonarono pericolosi. Quando mi propose di partire per Kalimdor non potei che accettare, desideroso di restarle vicino e a mia volta stanco di vedere sangue. Prendemmo una nave e da Orgrimmar trovammo la nostra strada fino a Mulgore, mentre il dolore per la mancanza di magia arcana si attenuava, diventando nulla più che un pulsare continuo ma sopportabile. Dovemmo chiedere asilo a Cairne Bloodhoof, che ci accolse con sospetto, ma ci permise di restare a patto che ci impegnassimo a fare la nostra parte per la popolazione.
A Thunderbluff, ebbi finalmente l'occasione per riprendere ad esercitare la mia mira: cominciai presto a seguire i cacciatori nelle loro uscite, imbracciando per la prima volta un fucile- diventato la mia arma prediletta, in questi anni- ed affinando gli istinti che già avevo cominciato a sviluppare nei miei viaggi. Anya, intanto, si era data alla gioielleria come professione.
Passarono pochi anni da lì alla mia partenza. Era una sera estiva, ricordo; tornavo da una caccia, durante la quale avevamo visto nella prateria un carro in fiamme. Questo genere di “incidente” avveniva sempre più spesso, e mi rodeva: per quanto fossi ormai abituato al mio genere di vita, le opportunità perdute- la possibilità di proteggere gli altri che avevo perso non arruolandomi- mi assillavano ancora ogni volta che la durezza di questi anni mi veniva messa di fronte. Così, rientrai alla nostra tenda assorto nei miei pensieri. Mia madre era già lì; la baciai su una guancia, lei mi sorrise prima di dirmi che avevamo bisogno di parlare. Mi invitò a sedermi.
“Volevo chiederti scusa per questi anni” esordì, zittendomi con un'occhiata severa quando aprii bocca per obiettare. “Sono stata egoista. So che sei come lui, e hai passato fin troppo tempo al mio fianco. Basta guardarti in faccia” e qui rise quasi, con affetto nella voce “per vedere che sei pronto a correre a fare l'eroe appena se ne presenta l'occasione. E prima che tu dica qualcosa, sono adulta e capace di prendermi cura di me stessa.”
Non opposi troppe obiezioni, anche perché aveva colto il mio desiderio; partii appena due giorni dopo, fatti i preparativi necessari.
Viaggio ormai da qualche mese.
Sento che il racconto si potrebbe chiudere qui, e ancora non vi ho trovato uno scopo. Chi leggerà mai un resoconto del genere? A chi potrebbe interessare? Vorrei con queste parole poter fare la differenza: se bastasse una penna a riportare indietro mio padre, o a cancellare il Flagello, non sarei stato certo il primo ad utilizzarla. Se non altro, prendere la distanza necessaria dagli eventi per descriverli è utile per pensare, riflettere sul futuro. Non è forse per questo, che si scrive?

world of warcraft, fanfiction, yunel

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