Fandom: Mitologia classica
Prompt: 219. Desiderare, chiedere, credere, ricevere
Titolo: Amor vincit omnia
Autore:
gw_at_ecateWordcount: 777 - roba che neanche a contarle ♥
Rating: pg13
Avvertimenti: fluff, e romanticume vario. Se avete carie evitate la lettura. Lime sottointesa? Ma tipo molto sottointesa?
Introduzione: "Come ogni notte, chiudeva gli occhi nel buio, nero su nero, aspettando l’arrivo del suo sposo."
Psiche attendeva. I minuti passavano, lenti ed inesorabili, e lei ancora attendeva.
Come ogni notte, chiudeva gli occhi nel buio, nero su nero, aspettando l’arrivo del suo sposo.
Una marea confusa di emozioni le navigava in petto, si susseguiva come le onde che si accavallavano, mescevano.
Prima la trepidazione, la brama di riaverlo accanto, la nostalgia.
Le dita le prudevano, e le stringeva attorno alle braccia per smorzare il desiderio di toccare di nuovo le mani del marito. Sentiva la propria pelle fresca nell’aria frizzante della notte, sperava arrivasse presto un altro tocco a sovrapporsi al suo.
Poi l’ansia, la paura del non vedere, non sapere.
Il cuore le balzava in gola, e le mancava il fiato. Forse una notte avrebbe scoperto che l’uomo dei suoi sogni era solo un mostro, un viscido che senza il favore delle tenebre non avrebbe mai potuto sperare nell’abbraccio di una donna.
L’ansia si tramutava in panico intollerabile, Psiche serrava gli occhi e combatteva le lacrime, e proprio allora giungeva a rincuorarla il ricordo della sua voce. Parole dolci, sussurrate al suo orecchio timoroso, accompagnate da un corpo caldo e premuroso. Che mostro poteva essere una persona in grado di farla sentire così al sicuro? Un mostro perfetto, un mostro splendido, un mostro di cui era ormai innamorata, qualunque volto egli avesse.
Si portò le mani sulle spalle nude, al petto in cui il battito del cuore riecheggiava frenetico. Udì la porta cigolare sui cardini, e sorrise nell’oscurità della camera nuziale.
«Psiche.»
«Sono qui.»
Rispose al sussurro roco dello sposo, allungando le braccia verso di lui. Il tappeto attutì il rumore dei passi con cui la raggiunse. Le mani si strinsero, e Psiche sospirò di sollievo.
«È tardi.» lo rimproverò, liberando le dita da quelle del marito, per accarezzargli il collo.
«Lo è sempre.»
Il marito salì con un ginocchio sul talamo, e Psiche si scostò per sedere accanto a lui. Lo sposo le trovò il viso con le mani e la baciò. Sapeva di miele, e qualcos’altro di dolce che Psiche non era ancora riuscita a distinguere, più esotico ed inebriante di ogni altro sapore.
La spinse dolcemente, per farla stendere. Nel buio totale anche quel piccolo movimento riusciva a darle un senso di vertigine, priva com’era di punti di riferimento che non fossero il corpo stesso del marito. Psiche si aggrappò alle sue spalle mentre si adagiava sotto di lui.
Era caldo, pelle liscia e muscoli forti. La giovane immaginava una carnagione dorata dal sole, occhi profondi e limpidi in grado di vederla nonostante la cappa oscura della notte. Nei suoi pensieri le labbra erano scure, sempre morbide quando le si posavano sul collo o sul seno. Psiche avrebbe potuto scolpirle, disegnarle, inciderle, per tutte le volte che ci aveva passato le dita, imparandone la linea perfetta.
Avrebbe voluto vederla alla luce del giorno, tutta quella bellezza. Invece così poteva fare solo come i ciechi, le vecchie profetesse, i mendicanti per strada, e toccare ogni angolo, ogni curva, ogni superficie del corpo del marito. Abbandonava tra i raggi del sole il pudore, la timidezza, e con la luna celata dalle nubi lo accarezzava con le dita, le unghie, la bocca, creando nella propria mente il profilo di quella persona tanto amata, tanto sconosciuta. Tanto ignota da non saperne nemmeno il nome.
Sospirò tra le sue braccia, e gli passò le mani attorno alla nuca quando si abbandonò sopra di lei. Gli accarezzò lieve i folti ricci, cercando forza in quel contatto.
«Ti amo.» confessò in un bisbiglio timoroso.
Lo sposo si alzò di colpo, e Psiche riuscì quasi a palpare la sua gioia.
«Ti amo, e nemmeno conosco il tuo nome.» proseguì, prima che egli potesse parlare.
Il marito le accarezzò una guancia, e lei sentì la pelle irruvidita dei suoi polpastrelli irrorarla di calore.
«Chiamami “Amore”.»
Tutto l’affetto, tutto l’amore in quella voce rischiarono di farla cedere al pianto. Respirò con cautela.
«Amore. Amore è dio, Amore è più grande di noi, si offenderebbe se chiamassi sempre il tuo nome con il suo.» gli rispose.
«No, Psiche. No, Amore. Proprio perché è Amore, capisce. Egli sa che non c’è nessuna offesa.» la rassicurò dolcemente, ad ogni frase una carezza.
Psiche aprì le palpebre nella speranza di intravedere il volto del marito, ma tutto rimase cieco e nero. Posò una mano su quella di lui che la sfiorava. Le lacrime le inumidirono gli occhi.
«Sei Amore. Ed io ti amo, Amore. Mio Amore.»
Lo sposo baciò i due rivoli di pianto che le percorrevano le guance, e in quel momento Psiche fu sicura che fosse in grado di vederla.
«Ti amo, Psiche, Amore.»